C’era una volta e c’è ancora un antico rituale onorato da ogni famiglia partenopea il giorno della domenica a pranzo: la guantiera. Questa abitudine secolare, ampiamente diffusa in tutta Napoli e Provincia, è un dolce peccato di gola, ma anche un momento di convivialità che i napoletani si concedono puntualmente ogni domenica a pranzo. Al pari della pizza e del caffè, c’è una sola cosa di cui ogni buon napoletano non può proprio fare a meno ed è il vassoio di mignon (paste o pastarelle come le chiamano a Napoli) il giorno del Riposo del Signore. Ancora alla tradizione e in piena contrapposizione alla pasticceria moderna fatta di dolci monoporzione creativi e golosi, la pasticceria mignon tipica napoletana resiste e persiste e non dimostra di subire i segni del tempo né quelli delle innovazioni del settore. Scopriamo insieme come è fatta la guantiera napoletana e perché è un rito irrinunciabile per ogni partenopeo.
La domenica a Napoli è il giorno della messa, del ragù lasciato pappuliare (ossia cuocere) per 8 ore, delle polpette e della parmigiana, ma anche dei mitici “vassoi dorati“. Ogni napoletano (solitamente il capofamiglia) non torna a casa a pranzo la domenica senza uno di quei vassoi dorati colmi di dolci tipici napoletani. La guantiera è un tripudio di bontà, di pasticcini (pastarelle nel dialetto napoletano) di ogni forma, gusto e tipo. Non osate ordinare dolci americani o moderni: la guantiera è fatta solo ed esclusivamente di dolci tipici napoletani in formato ridotto (pasticceria mignon).
Il rito è sempre lo stesso, si va alla pasticceria di fiducia sotto casa e dalla vetrina si scelgono i dolcetti che più si gradiscono, solitamente un mix di tutti le tipologie più famose: la zuppetta, lo choux, l’eclair, il profiterole, la delizia, la deliziosa, la coda d’aragosta, la riccia, la frolla, il babà, la crostatina, la santa rosa, la testa di moro, il fungo, il savarin, la mini pastiera e la mini caprese, solo per citarne alcuni.
Il termine guantiera oggi indica il vassoio dorato di dolci tipici della domenica napoletana. In origine invece questo termine indicava il vassoio di argento o madreperla dove veniva poggiati i guanti degli ospiti al momento del loro ingresso nelle dimore nobiliari.
Questa parola viene definita dagli studiosi “apolide” ovvero priva di cittadinanza; non a caso la ritroviamo in tante regioni italiane, anche se è maggiormente diffusa a Napoli e nel territorio campano. In alcune regioni italiane nei paesini montani la guantiera viene usata per lanciare petali di rose, coriandoli o riso ai novelli sposi all’uscita dalla chiesa.
Secondo gli studiosi, il nome guantiera deriva dalla lingua spagnola più precisamente dalla parola “aguantar” che significa sostenere o reggere.
Il termine è passato ad indicare un vassoio di dolci solo grazie ad un pasticciere svizzero-tirolese di nome Ludwig Caflish. Quest’ultimo prima si trasferì a Livorno, poi passò a Roma e infine giunse a Napoli dove aprì una sua pasticceria in via Santa Brigida nel 1825. Fu lui il primo ad usare un vassoio di cartone pressato di colore dorato per contenere i dolci.
I vassoi dorati di Caflish erano piccoli scrigni di bontà e per sottolineare l’importanza di questo vassoio e la nobiltà dei dolci in esso custoditi come “tesori” furono chiamati guantiere. Dagli inizi del Novecento era abitudine dei nobili comprare il vassoio di dolci all’uscita dalla messa domenicale.
Non bisogna dimenticare poi che lo stesso scrittore Alessandro Manzoni nel suo capolavoro “I Promessi Sposi” del 1827 cita le guantiere (“vennero subito gran guantiere colme di dolci che furono presentati prima alla sposina”).
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